FRAGOROSO SILENZIO
giovedì 5 settembre 2013
La via dell'inclusione...
Don Milani
Leggo e pubblico per riflettere insieme...
Quale inclusione? Riflessioni critiche sui
bisogni educativi speciali/ Il dibattito sui BES 8
Mi permetto di
proporre alcune riflessioni in riferimento al dibattito in corso nel mondo
della scuola e degli ambienti pedagogici sulla questione dei cosiddetti
‘bisogni educativi speciali’ che ha trovato una sua esplicita formalizzazione
nei documenti del Miur di dicembre 2012 e marzo 2013. Considero la questione
estremamente delicata e complessa ma anche importante poiché è il riflesso di
una concezione della scuola e di una visione della gestione delle differenze in
termini di apprendimento, crescita individuale e collettiva. In sostanza ne va
del modello di società che vogliamo costruire formando le future generazioni e
quindi della nostra idea di democrazia. Faccio rapidamente alcune
considerazioni e pongo alcuni quesiti sui quali invito il mondo della scuola ma
anche dell’educazione in generale a riflettere seriamente:
I rischi della logica differenzialistica e delle stigmatizzazioni
sofisticate
Ricordo che nel 1977
con la legge sull’integrazione scolastica degli alunni disabili nella scuola di
tutti si superava , almeno così si pensava allora, la logica differenzialistica
delle classi differenziali , delle scuole speciali e delle sezioni ghetto. Si
affermava il principio dell’eguaglianza delle opportunità nell’accesso
all’istruzione e all’educazione predisponendo strumenti e risorse (vedi
insegnante di sostegno) per favorire lo sviluppo delle potenzialità di tutti
gli alunni tramite una attività pedagogica accogliente, in grado di promuovere
l’individualizzazione dei percorsi di apprendimento e l’attività di gruppo
(produttrice di esperienze di socialità). Tutto andava quindi nella direzione
di lottare contro l’esclusione, la marginalizzazione e la
stigmatizzazione/inferiorizzazione dell’alunno disabile. Negli anni si sono
sviluppate esperienze didattiche e pedagogiche ricche di innovazione ma sono
anche emerse molti limiti e tante criticità. Con una direttiva del 2010 il
ministero pone la questione degli alunni con disturbi specifici
dell’apprendimento (dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia); si
promuovono corsi di formazione per insegnanti (curriculari e di sostegno).
Comincia a porsi una domanda: se è giusto essere attenti al fenomeno dei DSA
non v’è il rischio di una identificazione rapida tra difficoltà di
apprendimento e disturbi specifici? Non v’è anche il rischio di accentuare lo
sguardo clinico-diagnostico a scapito dello sguardo pedagogico che dovrebbe
essere quello dell’insegnante? Abbiamo anche visto gli alunni con ADHD
(sindrome da deficit di attenzione e ipertattività); anche qui una nozione e
categoria ambigua e molto discussa: cosa vuol dire? Chi sono? Quale attenzione
pedagogica da parte dell’insegnante (una volta lo psicopedagogista francese
Henri Wallon parlava di ‘bambino turbolento’; si capisce che dire turbolento e
dire iperattivo non è la stessa cosa, non è lo stesso sguardo; il primo colloca
la questione nell’ambito educativo, il secondo in quello clinico-sintomatologico).
Adesso abbiamo i BES: chi sono? In parte si riprende alcune categorie
precedenti e si aggiunge: gli alunni con difficoltà di apprendimento (quale
alunno non presenta difficoltà di apprendimento?), gli alunni con disagio
psico-sociale (la povertà sociale è un problema?), quelli con difficoltà
linguistico culturali (l’essere figlio/a d’immigrati è un problema?), gli
alunni con un ‘funzionamento intellettivo limite’ (cosa vuol dire
esattamente?). Insomma una ulteriore categoria insieme ambigua, generica e
anche funzionale al paradigma clinico-diagnostico-terapeutico che sta
colonizzando culturalmente la scuola e la società. Faccio notare che le
categorie usate non sono per niente neutrali e che mentre la logica
differenzialistica tende a produrre e riprodurre diseguaglianze
(stigmatizzazioni sofisticate) il riconoscimento delle differenze passa tramite
un’azione pedagogica basata sul principio di eguaglianza nell’accesso ai saperi
e alle conoscenze. Insomma la logica differenzialistica delle categorizzazioni
continue non ha nulla a che fare con il riconoscimento delle differenze.
Quale inclusione?
Anche sulla questione
dell’inclusione occorre confrontarsi e chiarire meglio di cosa stiamo parlando.
Per anni si è parlato di integrazione, in particolare in riferimento
all’integrazione scolastica e sociale degli alunni con disabilità (distinguendo
la disabilità-prodotta da un deficit sensoriale, motorio, intellettivo
dall’handicap prodotto o conseguenza socio-culturale, ostacoli generati dalla
società nell’interazione con il soggetto con disabilità); si diceva che fosse
importante creare delle opportunità e delle situazioni educative e formative in
grado di rimuovere barriere e ostacoli. Di modificare tramite la mediazione
dell’azione educativa pregiudizi e situazioni handicappanti produttrici di
esclusione, autoesclusione e stigmatizzazione/interiorizzazione. Poi da alcuni
anni si è cominciato a parlare d’inclusione, precisando che si voleva
sottolineare che il cambiamento non poteva essere a senso unico ma reciproco
(soggetto e ambiente). Troviamo queste considerazioni già nei lavori dello
psicopedagogista sovietico Lev Vygotskij che parla di mediazioni: quello che
oggi vengono definite con le espressioni strumenti compensativi e dispensativi
(uso di tecniche, ausili e di accompagnamento e supporti). Produrre esperienze
di apprendimento mediato per favorire lo sviluppo delle potenzialità di tutti
gli alunni, appunto in una prospettiva d’integrazione e/o d’inclusione. Ma
sorge un dubbio: se il concetto d’inclusione è strettamente connesso agli
indirizzi proposti sui cosiddetti Bes si muove nella direzione del
differenzialismo, allora cosa vuol dire includere? Un concetto chiave rimane
quello di adattamento funzionale. Quindi si tratta di adattare, per il bene
dell’alunno ‘Bes’ , di ‘normalizzare’, di ‘curare’. di ‘riparare’. Ma a questo
punto non si rischia di riprodurre le diseguaglianze che si dichiara di volere
combattere? Non si rischia di fornire una giustificazione ‘scientifica’
all’esistenza, purtroppo reale, delle sezioni ghetto nelle scuole, e, quindi,
di riprodurre la logica delle classi differenziali? Nei documenti del ministero
si parla della valutazione dell’inclusività delle scuole: ma chi si occuperà di
questa valutazione? Quale formazione e competenze avranno i valutatori? Quali
criteri di valutazione saranno utilizzati? Non vorrei che i criteri (diffusi
nei sistemi di valutazione PISA) usati (successo scolastico, abbandono e
dispersione scolastica, autofinanziamento, progettualità approvate e realizzate)
finissero per penalizzare ulteriormente le scuole delle periferie, le scuole
povere dei quartieri emarginati, le scuole collocate nelle zone ad alta
presenza di immigrati… Vorrebbe dire riprodurre e accentuare le diseguaglianze
e essere in contraddizione con il detto costituzionale della Repubblica
italiana. Sono quesiti posti sia sul piano della riflessione filosofica,
pedagogica e sociologica da eminenti studiosi e pensatori come il tedesco
Jurgen Habermas (l’inclusione dell’altro) e il francese Charles Gardou (la
società inclusiva). Inoltre si pone anche la questione della relazione e del
tipo di collaborazione tra insegnante curriculare e insegnante di sostegno, ma
anche quella del rapporto tra scuola, famiglie e territorio: è quello che nei
loro lavori recenti dei colleghi belgi come J.P.Pourtois, H.Desmett e
B.Humbeeck chiamano ‘processi co-educativi’: come si costruisce l’alleanza
co-educativa tra i diversi attori della comunità? Come si può attivare e
realizzare insieme dei processi di emancipazione che garantiscono la giustizia
nei processi di apprendimento?
Didattica o didatticismo? La marginalizzazione della pedagogia
La gestione del gruppo
classe e l’organizzazione degli apprendimenti sono due aspetti fondamentali
dell’attività docente. La tendenza va sempre di più (lo si vede nella
formazione stessa del personale docente) nella direzione delle procedure
didattiche, della tecnologia didattica, dell’uso degli strumenti; si
sostituisce la didattica come processo vivo (che implica la relazione complessa
tra docente, alunni, metodi , strumenti, comunità scolastica) con il
didatticismo inteso come procedura. Interessante notare che la figura
dell’alunno come soggetto significante del processo
d’insegnamento/apprendimento è assente. Se è presente lo è solo come fonte di
problema. Il rischio è di vedere l’insegnante diventare un operatore della
diagnosi e della procedura tecnica per valutare la performance dell’alunno in
termini stretti d’istruzione (come se istruzione e educazione non fossero
interconnesse in modo vivo nell’esperienza in classe). La pedagogia (quindi la
formazione pedagogica dell’insegnante che dovrebbe andare a caccia di risorse,
capacità, potenzialità e non di ‘comportamenti problema’) viene marginalizzata
nella cultura scolastica e colonizzata dallo sguardo di una certa psicologia
clinica. Non a caso i documenti ministeriali non fanno praticamente mai
riferimento alla lunga e ricca esperienza delle pedagogie attive e
dell’educazione nuova; ancora meno di quelle prodotte dalla pedagogia speciale.
Quale modello organizzativo, quale politica? Logica burocratica o
democratica?
Si parla di docenti
esperti e preparati sui ‘BES’ , si parla di Centri territoriali per
l’inclusione: ma cosa vuol dire in modo preciso? Chi saranno questi docenti
esperti dei BES ? Quale formazione avranno? Quali compiti e competenze? Che
fine faranno gli insegnanti specializzati o di sostegno? Vediamo in tutto
questo una risposta tecnocratica-burocratica ad una questione di ordine
culturale, pedagogica e sociale; di nuovo vediamo una scuola e un corpo docente
deprivato del proprio protagonismo, della possibilità di partecipare
all’analisi e anche all’elaborazione di proposte concrete per favorire
l’effettiva eguaglianza delle opportunità per tutti gli alunni nell’accesso
all’istruzione e all’educazione. V’è bisogno del contributo degli insegnanti
che ogni giorno attivano delle esperienze pedagogiche e didattiche nelle loro
classi, che ogni giorno affrontano la complessità e le difficoltà del mestiere
dell’insegnante in una società sempre più atomizzata e individualistica. Gli
alunni portano a scuola le contraddizioni che vivono nelle loro famiglia e che
produce una società che fa di ognuno un consumatore-spettatore e non un
soggetto responsabile consapevole del legame tra individualità e comunità, tra
diritti e doveri, tra desideri personali e bene comune. Gli insegnanti vanno
coinvolti non come destinatari di indagini predisposte da pool di esperti, non
come mere esecutori di direttive ministeriali o di tecniche specializzate ma
come attori/autori in grado di produrre senso e di fornire, tramite la loro
pratica, proposte e indicazioni per un rinnovamento della nostra scuola
repubblicana.
Mi fermo qui. Sono
solo alcuni spunti di riflessione; sono convinto che occorre rimettere al
centro l’azione pedagogica e promuovere un autentico confronto dando voce agli
operatori della scuola, agli insegnanti, agli educatori, ma anche agli alunni e
ai genitori che spesso si trovano a dovere fare delle scelte senza capire di
cosa si sta parlando. Ne va del futuro dei nostri figli, della scuola della
Repubblica e anche del futuro della democrazia in questo paese.
Da:www.laletteraturaenoi.it
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Cara Iolanda, il tuo lungo post, mi ha fotto un po riflettere!!! non capisco se stiamo vivendo in una realtà oppure se sia una fantascienza.
RispondiEliminaLe cose che tu hai specificato sembrano impossibili in una civiltà così detta come la nostra amati Italia.
Ciao e buona serata cara amica.
Tomaso
...ciao Tomaso...qui non si capisce quasi più niente...solo parole per imbrogliare...
EliminaQuanto c'è ancora da studiare e contemplare per un insegnamento ad hoc... gli allievi... non sono tutti uguali, ma uno diverso dall'altro.
RispondiElimina......chi ci governa non sta nelle scuole...e tutto gli sembra nuovo...ma non è così...
Eliminaè proprio il sistema scuola, il concetto stesso e il suo ruolo all'interno della società che va cambiato. La scuola assieme alla sanità dovrebbe stare alla base di ogni paese
RispondiElimina...infatti Ernest...ma non lo vogliono capire!!!!!!!!!!!
EliminaIo ho fatto una campagna contro la psichiatria che ultimamente si è intrufolata anche nelle scuole fin dall'infanzia costringendo fin da piccoli, FIN DA BAMBINI, a somministrargli il RItalin. Il mio ultimo post che ti invito a leggere e, se vuoi, a commentare parla appunto di questa vergogna che dagli Stati Uniti e arrivata fino a noi. Dove si spingono gli psichiatri pur di guadagnar denaro e fare soldi sulla pelle anche dei più indifesi: I BAMBINI.
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